Il 23 novembre 1980 resta una delle date più drammatiche nella storia recente del Sud Italia, un momento che continua a vivere nella memoria collettiva di chi lo ha attraversato e di chi, ancora oggi, cresce nel racconto delle generazioni precedenti. Quel terremoto, ricordato come uno dei più devastanti del Paese, colpì con una forza eccezionale l’Irpinia e un’ampia parte della Campania, ma le sue conseguenze si estesero ben oltre l’epicentro, raggiungendo Napoli, le sue periferie e quartieri popolosi come Secondigliano. A 35 anni di distanza dai fatti, l’Italia continua a interrogarsi su come quella scossa abbia cambiato non solo il territorio, ma anche la consapevolezza collettiva sulla vulnerabilità delle nostre comunità.
Alle 19:34 di quel 23 novembre la vita di milioni di persone fu improvvisamente sconvolta da una scossa di magnitudo 6.9, durata 90 interminabili secondi. In quell’istante le abitudini quotidiane furono spazzate via da un boato improvviso, seguito da un movimento della terra così violento da far crollare interi paesi in provincia di Avellino e da provocare danni gravissimi anche in zone lontane decine di chilometri. A Napoli la scossa fu avvertita con una forza inattesa: palazzi che oscillavano, lampade che precipitavano dalle pareti, oggetti che volavano al suolo, finestre che andavano in frantumi. La città, già segnata da problemi strutturali e edilizi cronici, mostrò immediatamente tutte le sue fragilità.
Secondigliano, allora un quartiere densamente abitato e privo di molte infrastrutture moderne, fu tra le zone in cui la paura raggiunse livelli altissimi. Sebbene non si registrarono crolli paragonabili a quelli dell’Irpinia, i danni agli edifici, le crepe nei muri e il rumore dei palazzi che scricchiolavano crearono un’ondata di panico che spinse migliaia di persone a riversarsi nelle strade. Intere famiglie scesero di corsa dalle abitazioni, abbandonando tutto dietro di sé e cercando riparo negli spazi aperti, lontano da balconi e strutture che potevano collassare. In poche decine di minuti la vita del quartiere cambiò completamente: le strade si riempirono di gente che piangeva, urlava, pregava, si abbracciava, mentre le sirene cominciavano a risuonare nella notte.
Per tutta la serata e le prime ore della notte nessuno ebbe il coraggio di rientrare in casa. Le persone si sistemarono come poterono nei cortili, nei marciapiedi, nelle piazze, accendendo fuochi improvvisati per scaldarsi e condividendo coperte, tè caldo, panini e parole di conforto. La notte del 23 novembre 1980 fu una notte di comunità e paura allo stesso tempo: una notte in cui Secondigliano riscoprì la sua anima popolare, fatta di solidarietà spontanea, ma anche una notte in cui sembrò evidente quanto poco il quartiere fosse preparato ad affrontare un disastro di quelle dimensioni.
Nei giorni successivi emerse un quadro ancora più complesso. Molti edifici mostrarono danni strutturali significativi, mettendo in discussione la sicurezza delle abitazioni e costringendo diverse famiglie a essere trasferite altrove. Le scuole rimasero chiuse per giorni, i servizi rallentarono, la viabilità fu messa a dura prova e l’intero quartiere visse una fase di instabilità che si aggiungeva ai problemi già radicati nel tessuto urbano. La lentezza dei soccorsi e la mancanza di comunicazioni ufficiali alimentarono una sensazione di abbandono che avrebbe segnato profondamente la percezione collettiva di quello che era accaduto.
Il terremoto dell’Irpinia fece emergere con violenza tutte le criticità irrisolte della città di Napoli e delle sue periferie. A Secondigliano si scoprì quanto il patrimonio edilizio fosse vulnerabile, con palazzi costruiti frettolosamente, senza reali controlli o in condizioni di abusivismo che avevano indebolito ancor di più la sicurezza delle strutture. Le istituzioni parlarono per settimane della necessità di piani straordinari, verifiche, controlli e ricostruzioni, ma molti di quei propositi rimasero bloccati da burocrazia, mancanza di fondi e scelte politiche poco lungimiranti. Il sisma del 1980 divenne così non solo una tragedia umana, ma anche un simbolo delle carenze strutturali del Paese e della difficoltà di trasformare un’emergenza in un’occasione di rinnovamento.
A distanza di anni molti abitanti di Secondigliano ancora ricordano quella notte come un punto di non ritorno: un istante in cui il quartiere prese coscienza delle proprie fragilità e della necessità di una maggiore attenzione alla sicurezza degli edifici, alla prevenzione e alla protezione civile. I racconti di chi c’era parlano di bambini terrorizzati, di anziani che non riuscivano a muoversi, di madri in strada scalze con i figli in braccio, di porte sfondate, di ascensori bloccati, di rumori che nessuno aveva mai sentito prima e che ancora oggi, in molti, portano nella memoria come un marchio indelebile.
Il terremoto dell’Irpinia fu uno spartiacque per l’intero Mezzogiorno, e Napoli — con i suoi quartieri più popolosi e meno tutelati come Secondigliano, Miano, Scampia e San Pietro a Patierno — ne portò le ferite per decenni. Quell’evento non fu solo un disastro naturale, ma un potente campanello d’allarme sulla necessità di progettare città più sicure, rispettare le norme edilizie e investire in un sistema di emergenza più efficiente. Oggi il ricordo del 23 novembre 1980 rimane un monito, un richiamo costante alla prevenzione e alla responsabilità collettiva, perché una tragedia così grande non possa ripetersi.
Raccontare ciò che accadde allora significa anche dare voce a una memoria che appartiene non solo all’Irpinia, ma a tutta Napoli e ai quartieri come Secondigliano, che quella notte non furono semplici spettatori della tragedia, ma ne vissero tutte le paure, le conseguenze e le ferite. Ed è proprio il ricordo condiviso a mantenere viva la consapevolezza che la sicurezza del territorio è un bene prezioso che non può essere dato per scontato.
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