Il processo di primo grado per l’omicidio di Gelsomina Verde si è concluso con una sentenza importante dinanzi al Gup del tribunale di Napoli, Valentina Giovanniello, che ha accolto le richieste formulate dai pubblici ministeri Maurizio De Marco e Stefania Di Dona. La vicenda giudiziaria riguarda uno degli episodi più drammatici e simbolici della faida di Scampia, avvenuto il 21 novembre 2004, quando la giovane Gelsomina, appena 21enne, fu uccisa brutalmente nel pieno dello scontro tra il clan Di Lauro e il gruppo scissionista degli Amato-Pagano. A distanza di vent’anni, Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi, alias ‘o Vichingo, sono stati condannati a trent’anni di reclusione ciascuno per aver scortato l’auto in cui si trovava la ragazza, al cui fianco sedeva un terzo uomo armato, poi autore materiale del sequestro e dell’omicidio.
La storia di Gelsomina Verde è diventata nel tempo il simbolo dell’innocenza calpestata dalla ferocia camorristica, una ferocia che non ha esitato a colpire una giovane donna estranea alle dinamiche criminali, se non per una supposta conoscenza, peraltro errata, di uno dei boss rivali. I fatti ricostruiti in aula e sostenuti da decine di testimonianze e dichiarazioni di collaboratori di giustizia parlano di un vero e proprio sequestro punitivo. La ragazza fu prelevata, interrogata per ore nel tentativo di ottenere informazioni sul boss Gennaro Notturno, detto ‘o Sarracino, che i Di Lauro volevano eliminare. Nonostante le pressioni, Gelsomina non fu in grado di riconoscere l’uomo, perché in realtà non lo aveva mai visto. Ma la sua innocenza non bastò a salvarla. Fu considerata una testimone scomoda e, per questo, condannata a morte. Il suo cadavere fu poi bruciato in un’auto, in un tentativo disperato e crudele di cancellare le prove del delitto.
Il nome di Ugo De Lucia, cugino di Luigi e già condannato all’ergastolo, torna con forza nella narrazione dei pentiti come colui che avrebbe ordinato e materialmente eseguito l’omicidio. Secondo quanto emerso nel dibattimento, De Lucia agì con la consapevolezza di dover dare un segnale di potere e crudeltà nel pieno della guerra tra clan, dove il sospetto, più della verità, determinava la sorte delle persone. È in questo contesto che la figura di Gelsomina, ragazza semplice e laboriosa, diventa tragicamente emblematica. Frequentava la casa della famiglia Notturno per motivi di lavoro, e questo bastò per collocarla in un bersaglio immaginario. Da vittima collaterale, divenne oggetto di una spietata esecuzione. Le rivelazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Esposito, Gennaro Puzella, Rosario Guarino, Carlo Capasso e Salvatore Tamburrino, quest’ultimo noto per essere stato il vivandiere della primula rossa Marco Di Lauro e per aver intrapreso la collaborazione con la giustizia dopo l’omicidio della propria compagna Norina Matuozzo, sono state determinanti per ricostruire in maniera dettagliata e credibile l’intera dinamica del delitto.
Durante l’udienza, la tensione era palpabile in aula. Presenti il fratello di Gelsomina, Francesco Verde, e la madre, Anna Lucarelli, assistiti dall’avvocato Liana Nesta. La loro presenza è stata carica di significato umano e civile, perché rappresenta una famiglia che non ha mai smesso di cercare giustizia. In aula anche le parti civili costituite dalla Fondazione Polis, rappresentata dall’avvocato Gianmario Siani, e dal Comune di Napoli. Si tratta di un riconoscimento istituzionale importante, che lega la memoria di Gelsomina a una più ampia battaglia per la legalità e contro la criminalità organizzata.
Il dolore, però, non si è fermato a quel lontano 2004. La madre della vittima, Anna Lucarelli, ha denunciato di essere stata minacciata lo scorso giugno, in concomitanza con la prima udienza del processo. A parlare è stata lei stessa, con voce ferma e determinata, ma carica di dolore. Ha raccontato di essere stata avvicinata dal padre di uno degli imputati, che le avrebbe detto parole agghiaccianti: “Sarai il mio incubo. Devi fare la fine di tua figlia.” Una minaccia che ha riaperto ferite mai sanate e che ha reso ancora più evidente quanto la violenza camorristica possa sopravvivere anche fuori dalle celle e dai processi. La denuncia è ora al vaglio della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, mentre l’uomo in questione è stato successivamente arrestato per altri reati. Questo episodio dimostra che l’omertà e l’intimidazione sono ancora strumenti potenti nelle mani di chi non vuole che emerga la verità.
Un momento importante è arrivato a inizio anno, quando Gelsomina Verde è stata riconosciuta ufficialmente come vittima innocente di camorra. Un riconoscimento che ha richiesto anni di battaglie giudiziarie, documentazioni, testimonianze, ma che finalmente ha restituito onore alla sua memoria. Oggi il suo nome figura tra quelli che Napoli e l’Italia intera non devono dimenticare, un nome che racchiude il coraggio di una ragazza che, pur potendo forse salvarsi con una menzogna, scelse di dire la verità. E per questo fu uccisa.
La sentenza di oggi, con la condanna a trent’anni per Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi, rappresenta un passaggio cruciale. Non soltanto sul piano giudiziario, ma anche sul piano morale e simbolico. Restituisce una parvenza di giustizia a una famiglia distrutta dal dolore, lancia un messaggio forte contro l’impunità e afferma il valore della memoria come strumento di resistenza civile. Ma soprattutto, riporta la vicenda di Gelsomina Verde al centro del dibattito pubblico, ricordando che dietro ogni nome c’è una storia, dietro ogni vittima un’ingiustizia che grida vendetta, dietro ogni sentenza un pezzo di verità che torna alla luce dopo anni di silenzio e paura.