Francesco Mallardo, conosciuto come “Ciccio ‘e Carlantonio”, è morto all’età di 74 anni in un hospice dell’Emilia-Romagna. Era uno degli ultimi capi storici della camorra napoletana, un pilastro dell’Alleanza di Secondigliano, un nome che evoca decenni di guerre criminali, alleanze strategiche, silenzi tombali e potere incontrastato sulla provincia nord di Napoli. Con la sua scomparsa si chiude un capitolo durato quasi cinquant’anni, scritto nel sangue, nel piombo e nell’ombra.
Mallardo era detenuto da anni in regime di 41 bis nel carcere di Parma, condizione che ne aveva interrotto i rapporti diretti con il mondo esterno ma che non aveva completamente annullato la sua influenza. Da tempo malato, nelle ultime settimane era stato trasferito in una clinica per malati terminali, dopo che il giudice per le indagini preliminari aveva accolto l’istanza di scarcerazione presentata dall’avvocato Giampaolo Schettino. Il decesso è avvenuto in regime di detenzione domiciliare ospedaliera, ma senza che ci fosse alcuna vera riconciliazione con lo Stato: non ha mai collaborato con la giustizia, non ha mai parlato, non ha mai mostrato segni di cedimento. Fino alla fine, Francesco Mallardo ha incarnato il prototipo del boss “vecchia scuola”, quello che gestisce l’impero criminale con uno sguardo, con una frase, con un ordine pronunciato una sola volta.
Il suo volto compare per la prima volta in un rapporto dei carabinieri nel 1982, accanto a quelli dei fondatori della Nuova Famiglia, il cartello creato per opporsi alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Ma la sua carriera criminale era iniziata ben prima, negli anni Settanta, quando con il fratello Giuseppe e il cugino Feliciano, detto “‘o sfregiato”, iniziò a imporre il controllo sul contrabbando di sigarette e sulle attività illecite di Giugliano. La svolta avvenne con l’uccisione del padre, Domenico Mallardo detto “Mimì ‘e Carlantonio”, assassinato nel 1967 in un agguato ordito dal clan rivale dei Maisto. La vendetta fu brutale e sistematica: uno dopo l’altro, gli uomini della famiglia Maisto furono eliminati. A fine anni ’80, i Mallardo controllavano ormai tutta Giugliano.
Nel frattempo si andava definendo la geometria del potere camorristico del dopoguerra: dopo la fine dell’epopea cutoliana, Francesco Mallardo fu tra i promotori dell’Alleanza di Secondigliano, il cartello che unì i clan Mallardo, Licciardi e Contini, dominando la zona nord di Napoli e diversi quartieri della città. L’unione non fu solo strategica ma anche familiare: i tre boss sposarono le sorelle Aieta, cementando un legame che non era solo di sangue ma anche di interessi e fedeltà. Una quarta sorella andò in sposa a Patrizio Bosti, braccio destro dei Contini. Nacque così una delle strutture criminali più potenti del Sud Italia, con un controllo capillare sul territorio, sulle estorsioni, sul traffico di droga e persino su settori dell’economia legale come la ristorazione, l’edilizia, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti.
Il primo arresto avvenne nel 1992, quando fu trovato in una mansarda a Giugliano. Ma l’episodio più clamoroso risale al 1999, quando riuscì a evadere dall’ospedale di Giugliano dove era ricoverato per un infarto. La latitanza durò poco più di un anno: il 14 aprile del 2000, Mallardo fu catturato in un casolare di campagna, mentre cenava con altri dodici affiliati dell’Alleanza. Fu inserito tra i trenta latitanti più pericolosi d’Italia, e nel 2003 arrivò la condanna all’ergastolo. Tuttavia, nonostante la reclusione, secondo le inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia, avrebbe continuato a dirigere il clan attraverso canali indiretti, approfittando dei ricoveri e dei permessi medici per mantenere il contatto con i vertici dell’organizzazione.
La sua figura è stata per decenni quella del capo silenzioso ma onnipresente. Non era un capo che cercava la ribalta, né un “padrino” cinematografico. Piuttosto, era l’uomo delle stanze chiuse, dei summit notturni, delle strategie costruite in silenzio. Temuto dai nemici, rispettato dai fedelissimi, in certi ambienti era perfino considerato un “uomo giusto” perché capace, come altri boss, di intervenire con elargizioni e aiuti tra i più bisognosi del quartiere. Un doppio volto che ha permesso per anni alla camorra di infiltrarsi nel tessuto sociale, sostituendosi allo Stato nei territori abbandonati.
Oggi, a Giugliano, Secondigliano, Scampia, Vasto, Arenaccia, Capodichino e in tanti altri quartieri dell’hinterland, la sua morte viene accolta con silenzio e rispetto. Non ci sono manifesti, né funerali pubblici, né cerimonie. Il tempo dei riti solenni per i boss sembra tramontato, ma resta la percezione, tra le strade, che con Francesco Mallardo sia morto un “re”. Alcuni pentiti hanno usato proprio questa espressione: “È morto come un re, ma senza funerali da re”. Perché i codici dell’onore criminale non prevedono più il clamore, ma solo il rispetto discreto di chi conosce il potere che è stato.
Mallardo se ne va senza aver mai visto il crollo definitivo del sistema che ha contribuito a costruire. Non ha parlato, non ha tradito, non ha rinnegato la sua storia. È morto da boss, così come era vissuto. Per la giustizia italiana, la sua fine rappresenta una vittoria amara: ha vinto la malattia, non le manette. Il suo clan, seppur indebolito da arresti, sequestri e pentimenti, è ancora attivo e presente, segno che il sistema messo in piedi da Ciccio ‘e Carlantonio era più forte di un singolo uomo.
Con la sua morte si chiude l’epoca dei grandi capi, dei triumviri che si spartivano la città. Resta il vuoto, resta la memoria, resta una storia di sangue e potere che ha segnato generazioni. E resta soprattutto una domanda: cosa accadrà ora? Chi erediterà il comando? Quali equilibri si romperanno e quali nuovi assetti nasceranno nell’Alleanza di Secondigliano? La morte di Francesco Mallardo potrebbe essere l’inizio di una nuova fase nella camorra napoletana, oppure il preludio a una nuova guerra. Per ora, c’è solo silenzio. Ma a Napoli, come nella criminalità organizzata, il silenzio è spesso solo l’inizio del rumore.