Si avvicina un momento decisivo nel processo di primo grado per gli omicidi di Salvatore Milano e Antonio Avolio, due episodi ritenuti centrali nell’ultima faida di camorra che ha insanguinato Miano nel 2021. La Direzione Distrettuale Antimafia ha chiesto la condanna all’ergastolo per Giovanni Scognamiglio, Salvatore Ronga, Luca Isaia e Bernardo Torino, accusati a vario titolo di essere coinvolti nell’organizzazione e nella realizzazione dei due agguati di chiaro stampo camorristico. La requisitoria del pubblico ministero ha chiuso un lungo percorso processuale che ha raccolto testimonianze, intercettazioni e documenti giudiziari riconducibili agli assetti del crimine organizzato nell’area nord di Napoli. Ora la parola passa al collegio difensivo, composto dagli avvocati Leopoldo Perone, Rocco Maria Spina, Domenico Dello Iacono e Carlo Ercolino, che proverà ad arginare l’impatto della richiesta del massimo della pena, tentando di smontare l’impianto accusatorio costruito dalla Procura.
Il prossimo 11 giugno, giorno previsto per la sentenza, rappresenta una data attesa non solo dalle famiglie delle vittime, ma anche da una comunità che da tempo vive nell’ombra delle dinamiche criminali. Nelle ultime settimane, tre degli imputati – Scognamiglio, Ronga e Isaia – hanno deciso di assumersi la responsabilità degli addebiti, chiedendo pubblicamente scusa ai familiari delle vittime. Un gesto che, pur avvenuto in un contesto processuale, ha suscitato reazioni contrastanti: se da un lato qualcuno ha visto un tentativo di presa di coscienza, dall’altro resta forte la sensazione che si tratti di un’ammissione priva di reale volontà di collaborazione con la giustizia. Nessuno dei tre ha infatti mostrato disponibilità a rompere il muro d’omertà, né ad aprire uno spiraglio utile per ricostruire fino in fondo la rete di relazioni che ha alimentato la recente escalation di violenza.
Diverso l’atteggiamento di Bernardo Torino, che durante l’intero processo ha mantenuto il silenzio, evitando di rilasciare dichiarazioni e scegliendo la linea della completa non collaborazione. Una posizione che ha contribuito ad accentuare il profilo di chiusura e di lealtà alla vecchia regola del silenzio, ancora radicata in settori della criminalità organizzata che vedono nella non confessione un segno di forza o di appartenenza.
L’omicidio di Salvatore Milano, avvenuto nell’aprile del 2021 all’interno del bar Rosetta in via Vittorio Veneto a Miano, è stato descritto nei dettagli nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato all’arresto degli indagati. Sette colpi di pistola hanno posto fine alla vita di un uomo considerato uno degli ultimi ras legati alla vecchia organizzazione dei Lo Russo. Secondo quanto ricostruito dalla Procura, Milano è stato attirato in un’imboscata pianificata con precisione e portata a termine con l’obiettivo di eliminare un rivale, ma anche di inviare un messaggio chiaro all’interno del panorama criminale locale. Tra gli indagati figurano Giovanni Scognamiglio, Carlo Perfetto, Fabio Pecoraro, Salvatore Ronga e Bernardo Torino. In particolare, Torino avrebbe accompagnato nei pressi del bar i due esecutori materiali dell’omicidio, identificati in Pecoraro e Scognamiglio, secondo quanto riportato nell’impianto accusatorio.
Il secondo omicidio, quello di Antonio Avolio, si è verificato il 24 giugno dello stesso anno in via Comunale Vecchia Piscinola, mentre la vittima percorreva in scooter quella che, secondo gli inquirenti, era una delle zone d’influenza del gruppo criminale di Ngopp Miano. L’azione fu rapida, violenta e determinata: un agguato in piena regola, che confermò fin da subito la matrice camorristica del delitto. La vittima era nota alle forze dell’ordine per la sua vicinanza al sodalizio criminale che aveva ripreso terreno nella parte alta di Miano, dove gli equilibri di potere erano stati già messi in discussione da precedenti operazioni di polizia e da dissidi interni. In merito a questo omicidio ha avuto un peso rilevante la testimonianza del collaboratore di giustizia Emmanuele Palmieri, che ha ammesso di aver partecipato direttamente alla fase preparatoria dell’agguato. Palmieri ha raccontato di essere stato inizialmente designato per eseguire materialmente il raid, ma di non essersi presentato all’ultimo momento per cause non precisate. Ciò nonostante, si sarebbe comunque attivato subito dopo per assicurarsi che l’azione venisse portata a termine, cercando Isaia e contribuendo alla fuga dei responsabili.
Il processo in corso e la richiesta dei quattro ergastoli rappresentano l’ennesimo passaggio di un’indagine complessa, che tenta di fare luce su una stagione di sangue segnata da vendette trasversali e da nuovi assetti del potere camorristico, in un quartiere dove le vecchie famiglie si sono frammentate e dove si affacciano nuove generazioni criminali decise a prendersi tutto con la violenza. Al tempo stesso, però, il silenzio degli imputati e la scarsa collaborazione con gli inquirenti continuano a essere un ostacolo per chi prova a fare giustizia e a spezzare un sistema che trova ancora troppi appoggi sul territorio.
In attesa della sentenza, resta forte il peso del lutto per le famiglie delle vittime e l’amarezza di un quartiere che continua a essere usato come teatro di regolamenti di conti e scontri interni a clan sempre più instabili ma ancora capaci di colpire. La speranza, in molti, è che la verità giudiziaria possa almeno restituire un frammento di giustizia a chi ha perso un figlio, un fratello, un padre. E che al tempo stesso possa servire da monito per chi, nel silenzio delle strade di periferia, è ancora tentato di seguire la via della camorra, senza fare i conti con le conseguenze.