Martina Carbonaro aveva solo 14 anni. Lunedì 26 maggio era uscita di casa con la leggerezza e la spensieratezza tipica di un’adolescente: aveva detto ai genitori che avrebbe incontrato delle amiche per un gelato. Un pomeriggio come tanti, in una vita che avrebbe dovuto ancora esplorare il mondo, crescere, conoscere, sbagliare, rialzarsi, amare. Ma Martina non ha mai fatto ritorno. E la sua scomparsa si è trasformata presto in un incubo per la famiglia, per i conoscenti, per tutta la comunità di Afragola e delle aree limitrofe, che ha partecipato alle ricerche sperando fino all’ultimo in un lieto fine che purtroppo non c’è stato.
Nella notte tra il 27 e il 28 maggio, i carabinieri della Compagnia di Casoria e del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna hanno trovato il corpo senza vita della ragazza all’interno di un edificio abbandonato, nei pressi dell’ex stadio “Moccia”. Una struttura fatiscente, ormai dimenticata, che si è trasformata in un luogo di morte e disperazione. Le urla strazianti dei familiari presenti al momento del ritrovamento hanno trafitto il silenzio della notte. Un silenzio che da allora avvolge la città in un dolore che pare senza fondo.
Quasi subito, i sospetti si sono concentrati sull’ex fidanzato della giovane, Alessio Tucci, 19 anni, residente anch’egli ad Afragola. Era stato visto in compagnia della vittima nel pomeriggio della scomparsa. È stato portato in caserma come sospettato e lì, dopo un interrogatorio serrato e ore di tensione, avrebbe confessato. Le sue parole, gelide e agghiaccianti, hanno sconvolto anche gli inquirenti: “L’ho uccisa perché mi aveva lasciato”. La rabbia, la frustrazione, il senso di possesso trasformato in violenza cieca. Martina era colpevole, agli occhi di chi l’ha assassinata, solo di una cosa: di aver deciso di non tornare con lui.
Secondo le prime ricostruzioni, l’omicidio sarebbe avvenuto con un oggetto contundente, una grossa pietra rinvenuta sul luogo del ritrovamento. Martina sarebbe stata colpita violentemente alla testa e poi lasciata lì, nel buio e nel silenzio di quelle mura abbandonate. Un’azione brutale, feroce, che racconta la crudeltà di un gesto mosso non da raptus, ma da una determinazione lucida e spietata. Il corpo, riferiscono gli inquirenti, sarebbe stato nascosto all’interno di un vecchio armadio dello stabile, come se occultare il cadavere potesse cancellare il crimine, come se bastasse un nascondiglio per sfuggire al peso delle responsabilità.
Il giovane è stato sottoposto a fermo per omicidio pluriaggravato e occultamento di cadavere. La Procura di Napoli Nord, attraverso il procuratore facente funzioni Anna Maria Lucchetta, ha diffuso una nota in cui si specifica che le indagini hanno previsto sommarie informazioni testimoniali, analisi capillare dei sistemi di videosorveglianza e sopralluoghi dettagliati. È stato così possibile ricostruire le ultime ore di Martina, identificare l’autore del delitto e arrivare a una confessione resa davanti al Pubblico Ministero. Una confessione che, pur non potendo riportare indietro la vita della giovane, rappresenta un passo fondamentale verso la giustizia.
La comunità è scossa. Il femminicidio di Martina Carbonaro non è solo una tragedia personale, è l’ennesimo capitolo di una lunga, lunghissima scia di sangue che continua a insanguinare il nostro Paese. Ragazze, donne, bambine, uccise da chi diceva di amarle. Non si tratta mai di amore. Si tratta di possesso, di controllo, di potere. Il volto più infame e terribile della cultura patriarcale che ancora oggi, nel 2025, miete vittime innocenti. Martina è stata uccisa perché aveva detto “no”. Perché aveva deciso, nella sua giovane età, di non accettare più una relazione. Aveva scelto per sé. E questa scelta le è costata la vita.
Sui social, il dolore si è riversato in migliaia di messaggi. “Figlia mia, chi ti ha fatto del male la pagherà” ha scritto Fiorenza Musa, la madre della vittima, in un post struggente. “Vola in alto, ora sarai con i miei genitori”, ha aggiunto, pubblicando una foto della figlia e chiedendo che il suo appello venisse condiviso il più possibile. Un dolore troppo grande da contenere, una ferita che brucerà per sempre.
Ora si attende la convalida del fermo per il ragazzo, che si trova già in carcere. Le indagini proseguono, ma i contorni del dramma sembrano ormai delineati. Resta una comunità intera sotto shock, resta la rabbia per una giovane vita spezzata. Resta l’inquietante sensazione che, ancora oggi, non esista un vero argine alla violenza maschile contro le donne. Anche quando le vittime hanno appena 14 anni.
Il caso di Martina deve far riflettere. Deve interrogare famiglie, scuole, istituzioni, forze dell’ordine. Come è possibile che un ragazzo di 19 anni arrivi a commettere un atto del genere? Quali segnali sono stati ignorati? Quali fragilità nascoste hanno alimentato la rabbia e la volontà di annientare una persona? Non ci sono risposte semplici. Ma c’è un’urgenza: quella di non girarsi più dall’altra parte. Di educare al rispetto, di prevenire con l’ascolto, di intervenire prima che sia troppo tardi.
Martina Carbonaro non tornerà. Ma il suo nome non deve essere dimenticato. Deve diventare un simbolo di tutto quello che non deve più accadere. E deve spingerci, ogni giorno, a costruire un mondo in cui nessuna, mai più, sia costretta a pagare con la vita la propria libertà.