Anche dal carcere continuava a gestire traffici e a mantenere i rapporti con l’alleanza camorristica di Secondigliano. Nonostante fosse detenuto, riusciva a controllare il commercio illecito di telefoni cellulari e droga all’interno degli istituti di pena, mantenendo attivo il legame con il clan Lo Russo e contribuendo al rafforzamento della sua influenza dietro le sbarre. Un’indagine approfondita del Nucleo Investigativo Centrale (Nic) della Polizia Penitenziaria ha portato a una nuova ordinanza di custodia cautelare nei confronti dell’uomo, accusato non solo di far parte dell’associazione camorristica denominata “gruppo di Abbasc Miano”, ma anche di tentato omicidio premeditato e porto abusivo di arma.
Il caso è destinato a far discutere. Non si tratta, infatti, di un semplice episodio di gestione illecita di comunicazioni all’interno del carcere, ma di un piano strutturato, portato avanti con una rete efficiente e capillare, capace di aggirare i controlli più rigidi. Il detenuto, nonostante la sua reclusione in istituti di alta sicurezza, era riuscito a mantenere un canale diretto e costante con l’esterno, organizzando approvvigionamenti di telefoni, droga e persino armi.
L’episodio più clamoroso risale al 2021, nel carcere di Frosinone. In quell’occasione, l’uomo era riuscito a ricevere una pistola tramite un drone, manovrato da complici all’esterno. Una volta entrato in possesso dell’arma, aveva aperto il fuoco all’interno della sezione contro altri tre detenuti. Una vera e propria azione dimostrativa, che non aveva come unico scopo l’eliminazione di possibili rivali, ma anche e soprattutto quello di mandare un messaggio chiaro: il clan Lo Russo è ancora operativo, e nessun muro può contenere il suo potere.
Un gesto che ha avuto il sapore di una vendetta, ma anche di una dichiarazione di forza. L’organizzazione camorristica, secondo gli inquirenti, si sarebbe trasformata in una sorta di “società di servizi criminali”, capace di garantire in diverse carceri italiane la consegna di cellulari, droga e oggetti vietati, utilizzando droni, complici, familiari e una rete logistica ben collaudata.
Le comunicazioni con l’esterno avvenivano grazie a telefoni cellulari miniaturizzati, spesso occultati con abilità, introdotti nei penitenziari sfruttando punti ciechi, cortili e persino l’ora d’aria. Nonostante le misure restrittive, l’uomo continuava a impartire ordini e ricevere aggiornamenti, mantenendo saldo il legame con i vertici dell’alleanza camorristica di Secondigliano.
L'indagine del Nic ha svelato un mondo parallelo che si muove tra le mura delle carceri. Un mondo dove i clan camorristici non solo sopravvivono, ma si riorganizzano, si consolidano, stringono nuove alleanze e impongono il proprio controllo anche sulla popolazione detenuta. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, l’uomo in questione sarebbe stato un punto di riferimento per i detenuti affiliati al gruppo di Abbasc Miano, garantendo protezione, strumenti di comunicazione e un collegamento continuo con l’organizzazione madre.
Il carcere, in questo scenario, non è più un ostacolo. Diventa invece un campo di battaglia strategico, dove si gioca una parte fondamentale della guerra tra clan. Chi riesce a mantenere il controllo tra le celle, rafforza il proprio prestigio anche all’esterno. Le azioni dimostrative, come quella di Frosinone, servono esattamente a questo: riaffermare gerarchie, intimidire rivali e mantenere l’equilibrio del potere criminale.
Il problema, però, è ben più ampio. Gli inquirenti parlano ormai apertamente di “carceri infettate” dalla camorra. I droni che sorvolano i penitenziari per lanciare pacchi con telefoni e droga non sono più casi isolati. Il traffico di microcellulari, spesso irreperibili ai controlli, è quotidiano. I contatti tra detenuti e familiari vengono usati come canali di comunicazione criptata. E le stesse dinamiche di clan si riproducono all’interno, con gerarchie rigide, regole, punizioni e favori.
Il caso di questo detenuto è solo uno dei tasselli di un puzzle inquietante. Dimostra, con brutale chiarezza, quanto sia difficile spezzare davvero il legame tra un affiliato e la sua organizzazione, anche dopo l’arresto. Dimostra che per certi clan, la galera non è una fine, ma una nuova fase. E rivela come la camorra napoletana, in particolare quella radicata a Secondigliano, continui a reinventarsi, a infiltrarsi, a operare anche sotto pressione e isolamento.
Le autorità penitenziarie e giudiziarie si trovano davanti a una sfida enorme. Non basta il carcere duro, non bastano le celle di isolamento. Occorre ripensare radicalmente il sistema, investire in tecnologia, in intelligence interna, in personale specializzato. Occorre interrompere i flussi di comunicazione, bloccare la logistica esterna, e fare in modo che ogni detenuto affiliato venga davvero isolato dal suo contesto criminale.
Solo così si potrà rompere quella catena invisibile che ancora oggi, da una cella di massima sicurezza, permette a un boss di impartire ordini, fare affari e, se serve, sparare.
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