Nel cuore del rione Don Guanella, tra Miano e Scampia, le indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia hanno portato alla luce l’esistenza di un’organizzazione criminale altamente strutturata, dedita al traffico di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina e hashish. Un’organizzazione con ruoli ben definiti, una logistica efficiente e un sistema di controllo del territorio che nulla lasciava al caso. Al vertice di questa rete di spaccio si trovava Antonio Bruno, noto come “Michelò”, figura centrale del clan Licciardi, storico sodalizio camorristico attivo nell’area nord di Napoli. Secondo l’accusa, supportata dalle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia e da una fitta rete di intercettazioni telefoniche e ambientali, Bruno non solo forniva direttive operative ma si occupava direttamente della scelta dei fornitori, della gestione delle risorse umane interne al clan e della riorganizzazione delle squadre di spacciatori, in caso di arresti o eventi imprevisti che potessero compromettere la continuità dell’attività illecita. Un ruolo di regia strategica, quindi, che ha consentito all’organizzazione di prosperare nonostante la costante pressione delle forze dell’ordine.
Nel tessuto operativo dell’organizzazione, ruoli fondamentali erano affidati a soggetti vicini a Bruno, come il genero Gennaro Russo e Gianfranco Fasano, entrambi descritti come elementi affidabili e fedeli, incaricati di supervisionare il rispetto delle direttive del boss e di garantire la sicurezza delle piazze di spaccio. La rete si reggeva su una gestione capillare dei canali di approvvigionamento della droga, suddivisi a seconda della tipologia di sostanza. La cocaina arrivava grazie agli accordi con il gruppo criminale facente capo a Gennaro Antonio Sautto, mentre l’hashish veniva fornito da Antonio Boccia, indicato come un ingranaggio fisso e affidabile della macchina criminale. Questi rifornitori erano in grado di assicurare consegne puntuali e continue, garantendo un flusso costante di sostanze stupefacenti che alimentavano le piazze di spaccio della zona. I collaboratori di giustizia hanno fornito un contributo importante alla ricostruzione dei fatti, descrivendo nei minimi dettagli i meccanismi attraverso cui la droga veniva movimentata, stoccata e poi distribuita.
Uno dei pentiti principali, Ciro Iuorio, ha raccontato come nel rione Don Guanella e alla Masseria Cardone arrivassero settimanalmente fino a 2,5 chili di cocaina, trasportati da lui stesso o da altri membri dell’organizzazione, tra cui Vincenzo Faiello, detto “’o Zizzillo”. Quest’ultimo è stato riconosciuto anche in alcune fotografie e indicato da altri collaboratori come appartenente al gruppo Sautto-Ciccarelli, direttamente coinvolto nella preparazione del kobret, un derivato della cocaina. Questo dettaglio conferma la presenza all’interno dell’organizzazione di competenze specifiche legate alla lavorazione e alla trasformazione delle sostanze, segno ulteriore di una struttura criminale non improvvisata ma organizzata secondo criteri quasi aziendali. L’attività di spaccio non era limitata a una sola piazza ma si sviluppava su più fronti. Il centro nevralgico era via Don Pino Puglisi, nota come “la baracca di Don Peppe”, affidata a Massimo Russo, che gestiva la distribuzione diretta al dettaglio. Altri soggetti, come Ciro Cristilli, Mariano Menna e Vincenzo Caiazzo, si occupavano di altre zone, mantenendo il contatto diretto con i clienti e assicurando che le vendite si svolgessero senza intoppi.
Le intercettazioni hanno restituito un’immagine ancora più concreta e viva della rete, mostrando le dinamiche interne e familiari che ruotavano attorno all’attività criminale. In alcune conversazioni, la moglie di uno degli spacciatori esprimeva insofferenza per il continuo via vai di clienti sotto casa, segno che l’attività aveva ripercussioni anche sulla vita privata dei coinvolti. In altri dialoghi, emergeva la meticolosità con cui Antonio Bruno e i suoi collaboratori contavano i proventi giornalieri delle vendite, discutendo cifre, bilanci e strategie di reinvestimento. Questi aspetti sottolineano quanto il controllo economico fosse un fattore chiave nel mantenimento dell’equilibrio interno e della stabilità del gruppo. Nulla era lasciato al caso, ogni movimento era monitorato, ogni rischio valutato, ogni problema gestito con freddezza e metodo.
L’indagine della DDA si distingue per l’accuratezza e la profondità delle ricostruzioni: non si limita a descrivere i fatti, ma svela i meccanismi interni del clan, i rapporti di forza, le relazioni di fiducia e le modalità di selezione del personale. Si delinea così un vero e proprio modello criminale che si regge su una struttura verticale, una gerarchia ben definita e un sistema di regole condivise, infrangibili. Un’organizzazione criminale capace di rinnovarsi, adattarsi e riorganizzarsi di fronte alle difficoltà, come dimostrano i piani per sostituire gli spacciatori arrestati con nuovi elementi, pronti a entrare in azione con poche istruzioni. L’intelligence raccolta ha permesso agli investigatori di ricostruire un’ampia rete relazionale, non solo tra i membri del clan Licciardi ma anche con altri gruppi criminali attivi in Campania, dimostrando la pericolosità e la diffusione di un sistema che non conosceva confini, né geografici né morali. Napoli, ancora una volta, si trova a fare i conti con una realtà fatta di traffici illeciti, potere territoriale e complicità silenziose. Ma grazie al lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine, si cominciano a scalfire quei meccanismi di potere che per anni hanno soffocato interi quartieri, alimentando un’economia parallela fondata sulla droga, sulla paura e sull’omertà.
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