Il 25 aprile è la data simbolo della Liberazione d’Italia dal nazifascismo, un giorno che racchiude in sé memoria, lotta e rinascita. Ogni angolo del Paese ha vissuto quella stagione drammatica con il proprio carico di dolore e speranza, ma ci sono luoghi dove la Resistenza ha preso forme inaspettate, silenziose, eppure decisive. Secondigliano, quartiere napoletano troppo spesso raccontato solo per la cronaca nera, fu uno di questi teatri dimenticati della Liberazione. Qui la storia non si fece solo con le armi, ma anche con il pane. E proprio intorno a quel pane ruota uno degli aneddoti più intensi e umani della Resistenza napoletana.
Nel 1945 Napoli era una città stremata. I bombardamenti avevano devastato interi quartieri, la fame aveva raggiunto livelli insostenibili, e i pochi generi alimentari disponibili erano spesso razionati o confiscati dagli occupanti. Il quartiere del Vomero, più elevato e relativamente protetto, era divenuto rifugio per molti sfollati, ma anche lì la penuria di cibo era una costante. Nei giorni più bui della fame, un gruppo di partigiani, alcuni dei quali appena ventenni, decise di compiere un gesto disperato ma necessario: raggiungere i mulini di Secondigliano per procurare farina alla popolazione. La zona, ancora attiva sul piano agricolo, custodiva uno degli ultimi mulini funzionanti dell’area nord di Napoli. Ma tra il Vomero e Secondigliano si estendeva un territorio sorvegliato: il campo di aviazione di Capodichino era ancora presidiato dai tedeschi, e ogni movimento nella zona veniva osservato e, spesso, represso con durezza.
Quella piccola brigata partigiana attraversò strade battute dal pericolo, passando per i sentieri interni di Miano e Secondigliano, sfruttando le masserie abbandonate come punti di sosta e copertura. Tra loro c’era anche una donna, conosciuta come Carmela ‘e Via Regina, che conosceva a memoria ogni tratto di terra tra le campagne e guidava il gruppo nei percorsi più sicuri. I racconti degli anziani del quartiere tramandano ancora oggi, con voce bassa e rispettosa, l’eco di quella spedizione. Alcuni sostengono che camminarono per più di dodici ore, evitando pattuglie e sentinelle, barattando oggetti e promesse pur di ottenere quella farina che avrebbe significato sopravvivenza.
Una volta raggiunto il mulino, i partigiani si caricarono sulle spalle i sacchi di farina, distribuendoli tra le famiglie bisognose. Non ci furono fanfare, né fotografie. Solo mani che si tendevano e altre che restituivano dignità. Grazie a quella missione, centinaia di napoletani poterono riassaporare il pane dopo mesi di fame. Era un pane grezzo, duro, fatto con farine miste e cotto nei forni rudimentali delle case, ma aveva il sapore della libertà. Era un pane che parlava di coraggio, di scelta, di vita. Non si trattò di un’azione militare, ma di un atto di Resistenza autentica, civile, umana. In quella farina c’era tutto il peso di una città che non voleva arrendersi.
Secondigliano, in quei mesi, visse altri episodi poco noti. Alcuni giovani del posto, figli di contadini, nascosero disertori e militari sbandati nelle cantine delle masserie. Un vecchio edificio in via del Cassano, oggi abbattuto, servì da rifugio per un gruppo di ex prigionieri alleati fuggiti da un convoglio. Vennero salvati grazie all’intervento di un sacerdote locale, don Antonio, che inventò di sana pianta una cerimonia religiosa per distrarre una pattuglia tedesca mentre i fuggitivi venivano portati verso il litorale domizio. L’aneddoto è ancora raccontato durante le veglie pasquali dagli anziani della zona, come un miracolo laico che il quartiere ha voluto custodire nel silenzio.
La Liberazione a Secondigliano non ebbe grandi proclami, ma fu fatta di piccoli gesti eroici: chi ospitava un partigiano, chi spezzava il pane con lo sconosciuto, chi forniva indicazioni a rischio della propria vita, chi falsificava documenti o rubava timbri per salvare qualcuno dalla deportazione. Nessuno di loro ricevette medaglie, ma tutti lasciarono un’impronta invisibile e tenace nella memoria collettiva del quartiere. Il 25 aprile, in questa parte di Napoli, è una data che ha un significato concreto: è il giorno in cui si ricordano non solo le grandi battaglie, ma anche le piccole resistenze quotidiane che impedirono alla miseria e alla paura di vincere.
Oggi, in una Secondigliano profondamente cambiata, dove le ferite sociali e urbane sono ancora aperte, raccontare queste storie significa restituire dignità a un territorio che ha saputo resistere anche quando tutto sembrava perduto. Significa ricordare che la libertà non è solo un valore astratto, ma qualcosa che si impasta con la farina, che si nasconde in una cantina, che attraversa i campi sotto la luna con la speranza cucita addosso. Il 25 aprile a Secondigliano è questo: una memoria viva, che chiede solo di essere raccontata.